Alessandro Sambini

Ritratto in volo nei cieli di Farm. Photo by Ilaria Tariello”
Ritratto in volo nei cieli di Farm. Photo by Ilaria Tariello

Com’è cambiata la vita degli artisti durante la quarantena? Come sono mutate le loro abitudini, il loro sentire, il loro lavoro?

L’aria sospesa, gli spazi dilatati, i silenzi, il fluire sordo del tempo. L’attesa pervasa di un chiarore surreale e indefinito che scandisce le vite della quarantena. Abbiamo chiesto a una serie di artisti di raccontarci lo scorrere del tempo dalle proprie case, trasformate in temporanei atelier. La vita di un artista ai tempi della pandemia.

I tempi di Alessandro Sambini

Come passi la giornata, dove e come dipingi ora?

Passo la giornata tra casa e studio, l’una 30 metri dall’altro. Distinguerei tra il “lavoro” di auto-tutela spirituale e quello concreto, che ha un precipitato più tangibile. Quest’ultimo dipende dalle stesse tempistiche pre-Covid, che, seppur più rarefatte e meno formali, rimangono invariate. Per quanto riguarda il primo “lavoro” invece non dipende da niente e nessuno se non (in sequenza lineare) dall’istinto di preservazione, dalla necessità insorta di riconsiderazione del sé (ovvero la ridefinizione del mio contorno) e infine dal vizio dell’auto-proiezione nel tempo.

Tempo, Spazio, Suono. Concetti ricalibrati, relativi, riformulati…

Ho scoperto che esiste il tempo, prima non lo consideravo. Lo spazio mentale sovrasta, annienta o domina quello fisico. Il suono è quello del violino, di Call Of Duty Mobile e delle cuffie Bluetooth che mi dicono: “call ended”.

Test di human-vision, pennarello nero su foto di campagna di moda, 2019
Test di human-vision, pennarello nero su foto di campagna di moda, 2019
Leggere, scrivere, riflettere, altro…

Semplicemente prima non facevo altro che assolvere ad una serie di tasks© in linea l’una con l’altra. Esisteva quindi il tempo libero.

La parte di tempo (della giornata lavorativa, delle festività o del ”fine settimana”, il cosiddetto weekend) durante il quale l’individuo è libero da impegni di lavoro. Nella nozione di t.l. così come è andata definendosi nelle società industriali, specie a partire dal secondo dopoguerra, è quindi implicito sia il concetto di tempo ”libero dal lavoro” sia quello, complementare, di tempo ”totalmente disponibile” e ”liberamente fruibile”: fruibile per attività alternative alle obbligazioni sociali del lavoro, come per esempio le attività di svago e/o d’interesse personale (i cosiddetti hobbies) o, comunque, di godimento privato (donde l’identificazione del free time con leisure in inglese, o con loisir in francese). 

I concetti limite che simbolizzano la massima divergenza tra questi due tipi di tempo sono lavoro gioco. (LAMITICATRECCANI)

Ora, libero di fruire, credo sia sempre weekend, gioco, godo privatamente, mi occupo dei miei hobbies.

Prima cosa che farai quando finisce la quarantena?

La sensazione personale è che, per vari motivi, la quarantena sia finita il primo giorno che è cominciata.

The Gallery revolve, videogame still, 2020
The Gallery revolve, videogame still, 2020
1624, Costellazione 4C, 2018
1624, Costellazione 4C, 2018

Il dodicesimo focus sulla nuova scena fotografica è dedicato ad Alessandro Sambini (Rovigo, 1982, vive e lavora a Milano).

Mauro Zanchi, Sara Benaglia: In Grand Tour (2017-2018), come in altri tuoi progetti, coinvolgi all’interno del tuo lavoro persone che hanno una relazione quotidiana con l’arte. In questo caso la pittura è analizzata in quanto forma documentale, un compito che ci aspetteremmo, piuttosto, dalla fotografia. Lo scarto è rappresentato in Pieve di Cadore dall’inserimento di una struttura antibalistica da te ricreata in 3D, in un parallelo temporale tra tale struttura e le rovine inserite in quadri di Canaletto e Bellotto. Che cosa accade quando un medesimo paesaggio viene dipinto da più occhi?

Alessandro Sambini: Quando lo stesso paesaggio viene rappresentato da più occhi la cosa più evidente è la differenza di approccio alla tecnica figurativa, ma ciò che mi interessava è che ogni punto di vista contribuiva a convalidare una lettura di un luogo, come una forma di mutua controprova. Di che luogo parlo? Il tentativo del progetto Grand Tour è quello di rappresentare un paesaggio/luogo ibrido: l’arte contemporanea in forma di capriccio. Sia nel caso di Pieve di Cadore che nel caso di Palermo, infatti, al centro dell’“inquadratura” c’è sempre un luogo legato al mondo dell’arte: in entrambi i casi una grande inaugurazione. La mia “rovina” esogena, a differenza delle colonne romane di Canaletto, che le prelevava da luoghi di questo mondo (o a Friedrich che riassumeva catene montuose realmente esistenti, solamente un po’ più distanti tra loro, in Wanderer Above The Sea Of Fog), è rappresentata nel primo caso (Pieve) dalla struttura anti-balistica e nel secondo caso (Palermo) dal furgone. È un tentativo di fondere due paesaggi tra loro molto distanti: il territorio in cui viviamo, fatto di terra e aria, e quello mediato, fatto di pixel, con cui ci confrontiamo ogni giorno. Il furgone, infatti, non è un furgone casuale: è lo stesso Hertz usato durante un attacco terroristico a Londra qualche anno fa e che si schiantò a lato della strada. Ho deciso, partendo dalle immagini che ho trovato su Google, di posizionarlo nello stesso modo, davanti alla sede temporanea di Viasaterna a Palermo, cercando di creare quell’idea di “capriccio contemporaneo”, di cui parlavo sopra. Per quanto riguarda la struttura anti-balistica (stampata in 3D con l’utilizzo della sabbia), che è stata il motore di tutto il progetto, volevo ragionare sul potere della documentazione visiva di un luogo, partendo da una riflessione sui Gargoyles di Notre Dame che, a differenza di quanto pensavo, non sono altro che una delle ultime appendici architettoniche aggiunte alla cattedrale alla fine dell’800.

MZ / SB: In White Hat – Black Hat (2018) hai chiesto a 23 studenti di esprimere le loro sensazioni in merito alla relazione tra umani e robot, tra uomo e macchina. In questa interrogazione “sulla natura di queste macchine”, perché utilizzi in modo indifferenziato i termini “robot” (lavoratori forzati dall’aspetto più o meno antropomorfizzato) e “macchina”?

AS: Attraverso l’esperienza di White Hat – Black Hat cerco di responsabilizzare una categoria specifica di specialisti dell’arte (gli studenti di un’accademia d’arte italiana) sull’importanza di una lettura attenta di quanto a livello globale si stia sviluppando, seppur silenziosamente, attorno a noi. “Le macchine”, “gli algoritmi”, “i robot”, rappresentano dei landmark nel chiacchiericcio globale odierno, ma spesso sono concetti-ombrello, vuoti o poco conosciuti. Sia per una reale impossibilità di contatto con questi mondi (dov’è il robot più vicino a te in questo momento?), sia per una generale difficoltà tecnica legata alla natura stessa di questi soggetti. Ma se da una parte abbiamo programmatori che si occupano di scrivere righe di codice incuranti (giustamente?) delle ricadute socio-culturali, dall’altra c’è un mondo dell’arte che credo possa intervenire instradando una serie di riflessioni sul tema che trovo generative. L’errore robot-macchina, triviale, rientra a mio parere ancora nell’attuale rarefazione dei confini tra i vari termini.

Alessandro Sambini, Ghè Pronto, Ceto, 2007, Courtesy Galleria Michela Rizzo e MLZ Art Dep
Alessandro Sambini, People At An Exhibition, video still, 2016, Courtesy Galleria Michela Rizzo

MZ / SB: In Spelling book (2018) fai riferimento a Caltech 256 Image Dataset, una banca dati – costituita da 30.607 immagini suddivise in 257 categorie di oggetti –  utilizzata per insegnare ai modelli a riconoscere le immagini. La suddivisione in categorie è la base processuale su cui il lavoro di apprendimento si fonda. Che ruolo ha la categorizzazione nell’apprendimento umano e quali ricadute ha questo sull’immagine?

AS: Ho provato a lavorare su questo tema, mettendomi alla stregua delle macchine e cercando di suddividere quanto vedevo in categorie, esattamente come fa un qualsiasi algoritmo di riconoscimento visivo. Posso solo dire che trovo sia un’esperienza lisergica. Mi sentivo ottuso nel farlo, stolto, chiuso e poco aperto a quello che l’umano invece riesce a fare, cioè ad avere elasticità e non confinare le sue decisioni alle categorie che ha di fronte. Cosa che al momento, per esempio, viene molto facile a un qualsiasi computer o alle intelligenze artificiali: non esistendo realmente il concetto di categoria (sovra-lettura umana a quello che stiamo propinando alla macchina) non esiste nemmeno il concetto di buono, cattivo, non esiste nessuna valorizzazione anche completamente soggettiva e “scorretta”. La categorizzazione umana è, invece, fondamentale per chi, come me, ha bisogno di dare un ordine al visibile: serve a sapere sempre dove si è, a quale infrastruttura sociale si appartiene, al territorio, in senso lato, a cui appartiene ciò che osserviamo e ciò che decidiamo di testimoniare attraverso, per esempio, una fotografia che possiamo scattare. Avendo sempre chiaro il luogo di destinazione e il modo in cui verrà mostrata. Ecco credo che nell’uomo questo sistema di categorizzazione permetta di calibrare bene un intervento espressivo, dal rutto al bar al quadro al Moma e viceversa.

MZ / SB: Evento e immagine si confrontano in Enfasi (2018). La fotografia ha da sempre avuto il ruolo di certificare un accadimento. Che tipo di messa in posa eseguono i cerchi rossi da te selezionati? E quale è stato il confine della tua area di indagine?

AS: L’unica cosa che certificano i cerchi rossi è una serie di eventi concentrici. Un photo editor, all’interno di una foto (o nuvola di pixel) precedentemente scelta da un funzionario della polizia postale, ha deciso – per incrementare l’effetto “esca” di una notizia – di selezionare quello che per lui era il punctum. È l’effetto di un’attenta triangolazione tecnico-concettuale, che lo ha portato a circondare una porzione di pseudo-informazione che io ho semplicemente croppato e isolato dal resto, incuriosito dall’effetto che queste nuove immagini (di cui, per altro, non ero autore) potevano dare nel tempo. Una delle prime domande, per esempio, che mi sono venute in testa da spettatore: cosa c’era oltre il frame rotondo? Cosa ha deciso di non mostrare il fotografo? Chi è il fotografo? Tra me che espongo dei cerchi rossi 60 x 60 sotto plexiglass, il photo editor triangolatore, il funzionario di polizia che per primo ha selezionato un frame da una videocamera di sorveglianza: di che ecosistema fotografico stiamo parlando e in che modo si contrappone a quello classico?

MZ / SB: Nella mostra “People At An Exhibition” (2016) l’uso di un robot programmato per filmare le persone che entravano in questo “passaggio obbligato” verso il resto della mostra, per eseguire un riconoscimento facciale, per smettere di registrare e per caricare il video su Youtube apre a un problema di privacy. Il robot era programmato anche per interagire con gli utenti? E, se no, chi aveva la delega di eseguire questo compito? Che impatto ha avuto sul progetto in generale?

AS: I materiali (testi, foto e video) che abbiamo pubblicato online fin dagli inizi sono diventati materiale per i dataset che stanno nutrendo le “intelligenze artificiali” di tutto il mondo, questo senza che nessuno lo sapesse o ne venisse informato (Kate Crawford e Trevor Paglen, per il blog Unthinking Photography). Anche senza questa informazione, relativamente recente, rimane il fatto che i selfie e le immagini di noi stessi quando le pubblichiamo non siano proprio consegnati ad addetti di Fort Knox. La mostra stessa partiva da questa constatazione: non siamo per niente gelosi delle nostre immagini. È sufficiente questa generalizzazione? A livello legale no, ma a livello concettuale per me lo era. Ciononostante ho deciso, per rimuovere qualsiasi dubbio, di posizionare un televisore prima della sala del robot. Il televisore riportava un video tutorial che spiegava come all’interno della stanza successiva la propria immagine personale sarebbe diventata di dominio pubblico e che, se questo non fosse stato gradito, si doveva indossare una maschera rossa, a disposizione prima di entrare. Il robot era programmato per interagire con gli utenti nella misura in cui li guardava dritto negli occhi. Durante il periodo passato all’interno della stanza e dando per assodato che fossero consenzienti (ogni valutazione robotica, ricordiamolo, sono righe di codice scritte da persone vere) decideva di mandarlo immediatamente online sul canalePeople At an Exhibition ospitato da Youtube. L’impatto sul progetto è che a livello visivo, sul canale, si possono rilevare due specie: i “facciati” e i “mascherati”. I “facciati” sono molto espressivi, mentre i “mascherati” sembrano essere spesso attoniti.

Alessandro Sambini, Grand Tour, Pieve Di Cadore, Il Carretto, 2017. Courtesy MLZ Art Dep
Alessandro Sambini, La Trattativa, statua 3D bicromatica, 2019. Collezione privata. Courtesy PALCO, Galleria Michela Rizzo

MZ / SB: Come possiamo andare oltre la mera visione retinica stigmatizzata da Duchamp? Quali sviluppi e modalità nuove immagini per una evoluzione del medium fotografico?

AS: Credo che nella fotografia l’abbiamo abbondantemente superata. A mio parere lo dimostra, per esempio, la serie di meme sulla suddivisione dei biscotti Oreo (Oreo separation memes, 2013-2019), che hanno scarnificato qualsiasi struttura semantica. Sono opere completamente disastrose a livello visivo (epic fails), che diventano alfabeti e codice morse. Sono immagini operative, che allontanano completamente lo spettatore dal godimento estetico e lo lasciano a quello scatenato dall’attivazione della materia grigia. Credo sia un passaggio importante, alla stregua di un altro meme: Enslaved Moisture (2019). Sembrano dei rebus, ma sono opere completamente concettuali, a differenza di quelli che si trovano sulla Settimana Enigmistica, fatti di lettere e disegni, nei quali bisogna dare un nome a una cosa o a un’azione e interporre con arguzia delle lettere, che appaiono in primo piano e fuori scala. Un’operazione quasi puramente alfabetica. Nel secondo caso si tratta di un’operazione che avviene all’ interno dell’insieme risultante dall’intersezione tra consumismo, resilienza e il carattere distruttivo dell’uomo descritto da Benjamin; quest’ultimo è una forza intrinseca all’uomo, che lo porta a individuare nuove strade (e nuove narrazioni), partendo da ciò che ha davanti, attraverso un’operazione di taglio. Nuove riconfigurazioni del mondo, come dice Rancière (2009), partendo dal mondo che ci viene offerto o il fotografo come editor (Zylinska, 2017). Di sicuro, un fotografo che ha abbondantemente archiviato e consolidato la capacità tecnica di produrre una nuova immagine da zero, che ha rinunciato a una relazione stretta con il reale e che in qualità di consumatore sa riutilizzare quelle già prodotte per offrire visioni alternative e grimaldelli visivi in grado di suggerire una sovversione degli attuali immaginari (crypto)apocalittici. Al netto di questo, io immagino una suddivisone della fotografia (esclusa quella prodotta dalle macchine) in due principali aree di azione: resistenza politica e macro di gladioli.

MZ / SB: Quale via sinestetica potrebbe espandere il medium fotografico?

AS: Credo che da questo punto di vista sia già stato esplorato molto. Partendo da Avatar e visione 3D, passando per la realtà aumentata, la realtà virtuale di Carne Y Arena di Iñáritu e arrivando a nuovi devices, che permettono di sentire i colpi subiti durante le partite ai videogiochi. Con una traiettoria del tutto trasversale e generativa trovo interessante l’Image Fulgurator di Julius Von Bismark (2008), che riusciva a inserire elementi esogeni nelle fotografie di altre persone. In realtà, più che l’esperienza sinestetica relativa alle immagini che ci troviamo davanti (pensando anche all’installazione Blue Line di John Baldessari esposta a Fondazione Prada qualche anno fa), mi interessa pensare a un’espansione dal punto di vista delle sensazioni che può provare la persona fotografata. Mi interesserebbe sviluppare un sistema che permetta alla persona fotografata di sapere e “sentire” di essere stata “scattata”. Che tipo di esperienza sinestetica sarebbe averne coscienza?

Alessandro Sambini, Spelling book, Learning from Caltech-256, Idea of Pyramid, 80×80, topsec, 2018. Courtesy MLZ Art Dep e Galleria Michela Rizzo
Alessandro Sambini, Test di human-vision, pennarello nero su foto di campagna di moda, 2019
15. Alessandro Sambini, TARA, Are We Still Alive? Shadow #01, 50×37, c-print, 2018. Courtesy Galleria Michela Rizzo
Alessandro Sambini, I Will Build A Stronghold, #03, stampa lambda, 80×80, 2017. Courtesy MLZ Art Dep

New Photography è una nuova rubrica di approfondimenti dedicata alla fotografia contemporanea: una serie di interviste di Mauro Zanchi e Sara Benaglia realizzate nel contesto di ricerca riferito allaMetafotografia e alla New Photography, iniziata nel 2018 – approfondita con una mostra presso BACO_BaseArteContemporaneaOdierna (Baco Arte Contemporanea) e una pubblicazione edita da Skinnerboox nell’ottobre 2019 – e tuttora in divenire con ulteriori approfondimenti nelle pagine online di questo sito.
New Photography è un progetto che in una prima fase coinvolge l’avanguardia fotografica contemporanea italiana e in seguito la Nuova Fotografia internazionale. Si pone il quesito di quale sia la natura dell’immagine alla luce di un cambio di paradigma visuale combinato con i cambiamenti sociali e tecnologici che lo hanno accompagnato. Gli algoritmi di correzione dell’immagine, il deep web, l’apertura al non visuale, la codificazione con stringhe di numeri, l’archivio, le corruzioni e gli sviluppi dell’inconscio tecnologico, l’utilizzo delle telecamere di sorveglianza e dello scanner invece di un obiettivo sono solo alcuni dei metodi e delle modalità di ricerca adottati dagli artisti coinvolti.

Alessandro Sambini, Ghe Pronto!, 2009, stampa fotografica 130×100
 

Il lavoro di Alessandro Sambini (Rovigo, 1982), che potrebbe essere collocato in ambito geopolitico, indaga i complessi meccanismi attorno ai quali ruotano i rapporti fra le persone nel nostro tempo, in cui l’informazione nella sua accezione più ampia ricopre un ruolo da protagonista. Gli abbiamo chiesto di raccontarci i suoi primi passi in ambito artistico.

All’Università di Bolzano ho conosciuto Francesco Jodice, che mi ha insegnato a guardare le cose in maniera diversa. Una volta finita quell’esperienza di studio sono tornato in Polesine, dove mi sono preso un paio d’anni di riflessione. Spinto da un amico sono quindi andato a studiare alla Goldsmiths di Londra dove ho approfondito tematiche legate alla cultura visiva e alla geopolitica. Alla fine del mio percorso di studi ho fatto una sorta di tesi sulle domestiche filippine che lavorano nelle case di Hong Kong. Poi mi sono trattenuto a Londra per qualche tempo ancora e infine mi sono trasferito a Milano, dove vivo da oltre due anni.

Alessandro Sambini, One is Dead, 2012, stampa fotografica 30×40. Courtesy Igor Cova

Scusa la domanda indiscreta: come riesci a mantenerti a Milano?
Al momento vivo scrivendo musica per la pubblicità. Da bambino ho studiato un po’ il pianoforte. Quando ho fatto il tirocinio nello studio di Francesco Jodice, mi ha chiesto se avevo voglia di comporre la musica per il suo lavoro video Sǎo Paolo Citytellers. Ci ho provato, ha funzionato, così ho cominciato.

Il tuo primo lavoro con la fotografia è del 2005 ed è intitolato Dov’è il Polesine…
Si tratta di un viaggio all’interno del Polesine, il luogo dove sono nato, alla ricerca di sintomi che evidenzino atteggiamenti e tendenze. È diviso in quattro macrotemi: I centri commerciali, che dialogano con il territorio in maniera goffa, mi sono appostato in macchina nei parcheggi e ho scattato attraverso il finestrino, cercando di mantenere un certo rigore; L’invasione: si tratta di alcune foto rubate in un bar di proprietà di cinesi. Ho voluto testimoniare lo scontro allora all’inizio tra i polesani e gli immigrati; Le riviste

In che senso le riviste?
Andavo a cercare nei contenitori bianchi della carta riciclata, appena installati, le riviste che leggeva la gente e fotografavo quello che ritenevo nella media rispetto a tutte le altre che avevo raccolto. L’ultima sezione si intitola Rumore di fondo: sono una serie di foto, che, come un rumore di fondo, mostrano un Polesine popolano, rurale, semplice e al contempo geniale e brillante, come è sempre rimasto pur avendo cambiato i suoi ritmi di vita.
Mi pareva che la mia terra potesse essere un micro osservatorio da cui guardare al resto del mondo. Non si tratta di un lavoro ironico, di una presa in giro, ho un enorme rispetto nei confronti delle radici culturali di quel territorio che amo profondamente. Mi pareva in tal senso di riuscire a sottolineare un modo virtuoso di vivere che andava perdendosi, a favore di una modernità orrenda. In una fotografia c’è un uomo che esce da un centro commerciale con una panca bianca di plastica in mano. Mi sono chiesto: perché va a comprare quella robaccia quando sarebbe in grado di fabbricarsene una di legno con le sue mani? Ho fatto quel lavoro per l’esame con Jodice a Bolzano, ma lo trovo ancora molto attuale.

Alessandro Sambini, Cumuli/Danger as Landscape, 2010, stampa fotografica 130×100

In seguito, sempre partendo dalla carta stampata, hai realizzato Argos, una foto di grandi dimensioni.
È il montaggio dieci metri per sei delle pagine scansionate di un catalogo di Argos, una grande catena di negozi inglese, dove si vende di tutto. Quello che ne viene fuori è una mappa di una casa divisa per zone, attraverso gli oggetti. È un lavoro che ripeterò ancora in futuro in maniera periodica. Nello stesso periodo, sempre sotto forma di montaggio tassonomico, ho realizzato Presidents. Ho scaricato da Internet discorsi di presidenti o di primi ministri e li ho assemblati, facendoli partire uno dopo l’altro, dando vita a una coralità di insieme.

Sembrano dire tutti la stessa cosa, è la vacuità di fondo che caratterizza l’ufficialità dei discorsi.
Infatti. Mi interessano i meccanismi del potere.

Mi hai detto che subito dopo il lavoro sul Polesine eri particolarmente affascinato dai lavori con il flash di Philip Lorca di Corcia e da questa passione è nato Ghe pronto!. Puoi parlarcene?
Per farlo ho utilizzato il banco ottico. Sono tutte famiglie a tavola. La mia, quelle dei miei amici, mia nonna che mangia da sola.

Due suore con la faccia dispettosa. Questo lavoro mi fa venire in mente certa pittura fiamminga.
Ho iniziato a fare questo lavoro come prova per un workshop, il tema era: lightworks. Ho pensato al flash in maniera molto banale. Mi interessava raccontare la convivialità che non esiste più. Nel buio cerco di cristallizzare quanto mi pare importante. Le persone ritratte non sono mai in posa. Ho cercato di metterle a proprio agio. Andavo da loro a cena e al momento giusto facevo loro due scatti, nulla di forzato. Ho fatto anche un altro lavoro a tavola, un lavoro complesso che non è solo fotografico.

Alessandro Sambini, One is Dead, 2012, still di video. Courtesy Igor Cova

Di cosa si tratta?
Di Dialogandia che non è un vero e proprio progetto artistico, è piuttosto una ricerca contenuta in un grosso libro. Ho scelto sette famiglie a Milano e sette famiglie a Napoli. Le ho intervistate e fotografate. La trascrizione dei dialoghi è diventata un grafico, attraverso i quali volevo analizzare il territorio. A tavola si parla di cose “normali”, che riescono a darci uno spaccato piuttosto preciso di quanto c’è oltre, fuori dalle mura domestiche. Se ne ricavano informazioni importantissime. Dialogandia era uno starter kit. Pensavo che la fotografia potesse registrare la verità se utilizzata in un certo modo “scientifico”.

Con un altro titolo mutuato dal dialetto polesano hai realizzato l’ultimo tuo lavoro totalmente fotografico: ‘Na mota, ‘na busa.
È un lavoro su commissione. Sono stato selezionato all’interno di GD4Photo Art, un concorso fotografico internazionale che viene fatto a Bologna ogni due anni. Alcuni curatori provenienti da tutta Europa invitano due fotografi ciascuno, i quali devono proporre un progetto fotografico. Vengono quindi selezionati quattro progetti e ad ognuno dei quattro fotografi vengono dati quattromila euro per realizzare un progetto. Uno dei quattro vince il premio finale. Io sono stato proposto da Roberta Valtorta e sono arrivato tra i primi quattro, poi non ho vinto, ma ho potuto realizzare il mio progetto. Ero interessato al concetto di uomo distruttore, che non vede ostacoli sul suo cammino pur di riuscire a fare quanto si è prefissato. Tutto quello che rimane è il residuo di questa attività distruttiva visionaria che diventa paesaggio.

Mi viene in mente in tal senso la TAV. Scusa l’interruzione, continuiamo.
Quando vivevo a Londra ho partecipato al First Perceptive Safari, organizzato nell’east di Londra da un gruppo di ragazzi molto preparati e intelligenti, i Brave New Alps. Da questo safari, e dalla domanda “che cosa fosse la percezione del paesaggio oggi”, è nata una riflessione: Danger as Landscape. Una collina di rifiuti poteva apparire come un paesaggio, la riva del Tamigi non è formata da sabbia, bensì da “praline” di plastica, ma all’occhio fotografico questa differenza sostanziale non interessa. Per Bologna ho fatto quindici foto con cumuli di ogni genere, tutti artificiali. Al largo delle coste della California c’è un grande cumulo, che galleggia sul mare. Apparentemente tutto pare pacifico, in realtà si tratta di una visione traditrice, infingarda.

Alessandro Sambini, Dov’è il Polesine, 2005, stampa fotografica 100×50

Puoi parlarci di Bona Fide, il tuo lavoro di tesi di ambito geopolitico, realizzato per il Goldsmiths?
È un lavoro sulle domestiche filippine. È il primo video che ho fatto utilizzando materiale di archivio invece che andare a filmare. Innanzitutto ho realizzato una ricerca approfondita e diverse interviste alle donne filippine che vanno a lavorare fuori dal loro paese. Gran parte del Pil di quel Paese asiatico è costituito dai loro introiti e loro sono considerate, come gli altri lavoratori maschi emigrati, eroine ed eroi della patria. A Hong Kong queste donne si auto-filmano, raccontano i loro pregi. I potenziali clienti guardano i film e poi decidono se assumerle o meno, come in una sorta di contratto audiovisivo. Quella che si vede è un’estetica di matrice colonialista che mi riporta alla mente, nelle modalità, il mercato degli schiavi nell’antica Roma. È un documentario-saggio, la mia non è critica sociale, piuttosto una presa d’atto.

In una recente mostra da me curata a Piacenza, ti ho invitato con il lavoro A bombed Tower grasps our gaze again. Tutto parte dalla domanda posta da una bambina: “Cosa significa fare la storia?”. Hai scaricato i filmati da Youtube.
Il lavoro è diviso in due parti. Il primo è la parte ufficiale della storia sulla costruzione di una torre a Dubai. Lo sceicco che parla, la torre che svetta. Spettacoli pirotecnici, è un’incontestabile affermazione di potenza.
Il secondo, Poema, il termine è quello di un testo della classicità che ho preso in prestito da Rancière, ci restituisce la stessa storia, lo stesso avvenimento metabolizzato dagli spettatori, nella sua versione ufficiosa. Tra gli spettatori una bambina pone al padre la domanda, che rimane un quesito aperto. Qui la narrazione si fa irriverente, la torre, in un certo punto, pare che esploda.

Lo spettatore, per citare Jacques Rancière, si è emancipato dalla stupida ufficialità di quanto gli viene proposto, non è  più soltanto un passivo fruitore, bensì un soggetto attivo, in grado di intervenire sulla versione dei fatti. Quella che ci troviamo di fronte è una dissacrazione, compiuta senza un disegno preciso. È cosa spontanea. È la messa in crisi del concetto di verità. È la pluralità dei punti vista.
Ora sto lavorando al seguito di quel lavoro sul Kuwait.

Alessandro Sambini, Cumuli/Danger as Landscape, 2010, stampa fotografica 100×50

Puoi parlarci del tuo recente e complesso lavoro Wən Is Dead.
Sono stato selezionato con altri sette artisti dal Museo della Fotografia Contemporanea di Cinisello Balsamo per Art Around, un progetto di arte pubblica nel nord Milano. Ho realizzato un lavoro al cui centro è la cultura televisiva italiana e l’affezione nei confronti dei personaggi narrati dai media. Ho fatto assistere un gruppo di persone alla proiezione di un gioco televisivo ideato da Igor Cova dal titolo Replay!. In sala cinema al Centro Sperimentale di Cinematografia di Milano, dove proiettavo questa trasmissione, c’era anche Uan un personaggio dei canali Mediaset, popolare fra i bambini negli anni Ottanta e inizio Novanta che presentava la serata e accoglieva gli spettatori. Dal megaschermo in sala si vedeva il gioco televisivo ideato da Cova. Un gioco in cui due famiglie sono chiamate a replicare due episodi di esecuzione di noti dittatori, Saddam Hussein e Mu’ammar Gheddafi. Sono interessato al fenomeno, oggi diffuso, delle persone che rimettono in scena fatti ripresi da Youtube. Il destinatario del mio lavoro era il pubblico reale, che sapeva di essere stato invitato a vedere la trasmissione di Igor Cova, che incarna un certo tipo di televisione cosiddetta creativa. Igor è uno specialista, sa fare tv, sa fare spettacolo. Alla gente piace rifare i film e lui dà loro ciò che vogliono. Chi vince si porta a casa 200mila euro. Durante la proiezione di Replay! però Uan si è sentito male, è stato portato via dai soccorritori della Croce Bianca e sembra sia morto durante il tragitto in ospedale, anche se questo non è ancora stato del tutto confermato.
In trasmissione ci sono due famiglie che devono interpretare morti celebri, ma in sala muore davvero un personaggio conosciuto. Ho cercato di indagare l’affezione che si sviluppa nei confronti di queste figure mediatiche, anche di fronte alla loro morte, attraverso lo spostamento del punto di vista o meglio, attraverso la sua messa in crisi.

Alessandro Sambini, TFL, 2012, DVD cover

Dopo aver visto i recenti lavori di Sambini ci si chiede dove finisce la realtà e dove inizia la sua rappresentazione. In una strana atmosfera dove reale e virtuale sconfinano in continuazione, dove la fotografia è molto più che documentazione, dove i fenomeni mediatici sono al centro della riflessione con tutta la loro potenza straniante e-perché no?-forse anche un po’ sovversiva.

Angela Madesani

Breve riassunto delle puntate precedenti, per chi non sapesse che cos’è Replay! e chi sia Alessandro Sambini.Replay! è un format televisivo in cui due famiglie si sfidano nel tentativo, attraverso degli smartphone, di replicare una scena, una per ogni nucleo famigliare, su un tema scelto dagli ideatori del programma. La seconda puntata del format, che si potrà vedere fino al 31 luglio a Venezia presso la Serra dei Giardini (all’interno della mostra collettiva Flags curata da Elena Forin), prevede come campo di riflessione atti iconoclasti del passato e i due video proposti sono: la distruzione di una madonna in gesso avvenuta nel 2015 in Medio Oriente e l’attacco alle torri gemelle avvenuto a New York nel 2001. Attraverso un sorteggio le due famiglie scelgono il video a loro destinato.

Nello studio di registrazione sono stati accuratamente ricostruiti i due set in questione. Ogni famiglia ha due oggetti da utilizzare all’interno della scena filmata: pena del mancato utilizzo, il ridursi del montepremi in palio. Terminato il tempo a loro disposizione, i video saranno proiettati nello studio (preceduti dai video originali) e il pubblico in sala decreterà i vincitori.

Per chi non l’avesse ancora capito, Alessandro Sambini (autore di cui ci siamo già occupati nel numero 214 di D’ARS) è l’ideatore e regista dell’opera Replay!.

Il processo innescato, o meglio, su cui riflette Sambini, è simile a quello scaturito dall’immissione sul “mercato delle immagini” delle fotografie dei fratelli Alinari nei primi anni del Novecento. Le fotografie dei fratelli toscani registravano il paesaggio italiano finendo nello spazio rettangolare delle cartoline che andavano a comporre l’immaginario iconografico del territorio nazionale. Questo consentiva alle immagini Alinari di occupare buona parte dell’immaginario iconografico contemporaneo, sovrapponendosi al paesaggio “reale”, quotidiano, influenzando e mediando lo sguardo sulla città o su parte di essa.

Oggi, 2015, sarà l’immagine dell’aereo che si schianta sulla torre a definire il paesaggio della New York che noi ricordiamo così come la Piazza dei Miracoli a Pisa –  in una fotografia del 1870  circa –  era la costruzione prospettica (Alinari) che restituiva l’immaginario iconografico di un turista del primo decennio del Novecento.

Ma a differenza del borghese viaggiatore milanese che si recava a Pisa per ammirare la famosa torre e conservava un ricordo in cartolina del paesaggio toscano che sarebbe andato a sostituirsi o a sovrapporsi alla sua stessa memoria, il turista contemporaneo non acquista un pezzo di carta da spedire a un amico o da conservare all’interno di un libro, ma scatta o “gira” lui stesso il proprio ricordo, modellando “autonomamente”, almeno in apparenza, la propria memoria.

Questo fa sì che il prodotto ottenuto (naturalmente si sta parlando di un caso generico) sarà influenzato, inconsciamente, dalle immagini che di quel luogo, ma non solo, avrà conservato nella propria memoria. Anzi, lo scarto interessante e quasi grottesco, sarà individuare come, ad esempio, un’immagine iconica come quella dello schianto dell’aereo dell’11 settembre, influisca sulle immagini, in movimento e non, prodotte in un arco di quaranta o cinquant’anni dall’evento stesso, anche in quelle non inerenti al luogo o al fatto dell’accaduto.

L’evento originario si spoglia del suo racconto e rimane una silhouette, uno scheletro da riempire con altro materiale, con altra carne. Rimane uno schema, una struttura, un immaginario visivo da adattare a diverse situazioni. Non vedremo più Piazza dei Miracoli, ma guarderemo attraverso l’inquadratura e il punto di vista di quell’immagine che ci è servita da segnalibro, che abbiamo spedito all’amante che amavamo, ma a cui non siamo riusciti a dichiarare la nostra eterna devozione.

Ritratto in volo nei cieli di Farm. Photo by Ilaria Tariello”
Ritratto in volo nei cieli di Farm. Photo by Ilaria Tariello

Com’è cambiata la vita degli artisti durante la quarantena? Come sono mutate le loro abitudini, il loro sentire, il loro lavoro?

L’aria sospesa, gli spazi dilatati, i silenzi, il fluire sordo del tempo. L’attesa pervasa di un chiarore surreale e indefinito che scandisce le vite della quarantena. Abbiamo chiesto a una serie di artisti di raccontarci lo scorrere del tempo dalle proprie case, trasformate in temporanei atelier. La vita di un artista ai tempi della pandemia.

I tempi di Alessandro Sambini

Come passi la giornata, dove e come dipingi ora?

Passo la giornata tra casa e studio, l’una 30 metri dall’altro. Distinguerei tra il “lavoro” di auto-tutela spirituale e quello concreto, che ha un precipitato più tangibile. Quest’ultimo dipende dalle stesse tempistiche pre-Covid, che, seppur più rarefatte e meno formali, rimangono invariate. Per quanto riguarda il primo “lavoro” invece non dipende da niente e nessuno se non (in sequenza lineare) dall’istinto di preservazione, dalla necessità insorta di riconsiderazione del sé (ovvero la ridefinizione del mio contorno) e infine dal vizio dell’auto-proiezione nel tempo.

Tempo, Spazio, Suono. Concetti ricalibrati, relativi, riformulati…

Ho scoperto che esiste il tempo, prima non lo consideravo. Lo spazio mentale sovrasta, annienta o domina quello fisico. Il suono è quello del violino, di Call Of Duty Mobile e delle cuffie Bluetooth che mi dicono: “call ended”.

Test di human-vision, pennarello nero su foto di campagna di moda, 2019
Test di human-vision, pennarello nero su foto di campagna di moda, 2019
Leggere, scrivere, riflettere, altro…

Semplicemente prima non facevo altro che assolvere ad una serie di tasks© in linea l’una con l’altra. Esisteva quindi il tempo libero.

La parte di tempo (della giornata lavorativa, delle festività o del ”fine settimana”, il cosiddetto weekend) durante il quale l’individuo è libero da impegni di lavoro. Nella nozione di t.l. così come è andata definendosi nelle società industriali, specie a partire dal secondo dopoguerra, è quindi implicito sia il concetto di tempo ”libero dal lavoro” sia quello, complementare, di tempo ”totalmente disponibile” e ”liberamente fruibile”: fruibile per attività alternative alle obbligazioni sociali del lavoro, come per esempio le attività di svago e/o d’interesse personale (i cosiddetti hobbies) o, comunque, di godimento privato (donde l’identificazione del free time con leisure in inglese, o con loisir in francese). 

I concetti limite che simbolizzano la massima divergenza tra questi due tipi di tempo sono lavoro gioco. (LAMITICATRECCANI)

Ora, libero di fruire, credo sia sempre weekend, gioco, godo privatamente, mi occupo dei miei hobbies.

Prima cosa che farai quando finisce la quarantena?

La sensazione personale è che, per vari motivi, la quarantena sia finita il primo giorno che è cominciata.

The Gallery revolve, videogame still, 2020
The Gallery revolve, videogame still, 2020
1624, Costellazione 4C, 2018
1624, Costellazione 4C, 2018
Ritratto in volo nei cieli di Farm. Photo by Ilaria Tariello”
Ritratto in volo nei cieli di Farm. Photo by Ilaria Tariello

Com’è cambiata la vita degli artisti durante la quarantena? Come sono mutate le loro abitudini, il loro sentire, il loro lavoro?

L’aria sospesa, gli spazi dilatati, i silenzi, il fluire sordo del tempo. L’attesa pervasa di un chiarore surreale e indefinito che scandisce le vite della quarantena. Abbiamo chiesto a una serie di artisti di raccontarci lo scorrere del tempo dalle proprie case, trasformate in temporanei atelier. La vita di un artista ai tempi della pandemia.

I tempi di Alessandro Sambini

Come passi la giornata, dove e come dipingi ora?

Passo la giornata tra casa e studio, l’una 30 metri dall’altro. Distinguerei tra il “lavoro” di auto-tutela spirituale e quello concreto, che ha un precipitato più tangibile. Quest’ultimo dipende dalle stesse tempistiche pre-Covid, che, seppur più rarefatte e meno formali, rimangono invariate. Per quanto riguarda il primo “lavoro” invece non dipende da niente e nessuno se non (in sequenza lineare) dall’istinto di preservazione, dalla necessità insorta di riconsiderazione del sé (ovvero la ridefinizione del mio contorno) e infine dal vizio dell’auto-proiezione nel tempo.

Tempo, Spazio, Suono. Concetti ricalibrati, relativi, riformulati…

Ho scoperto che esiste il tempo, prima non lo consideravo. Lo spazio mentale sovrasta, annienta o domina quello fisico. Il suono è quello del violino, di Call Of Duty Mobile e delle cuffie Bluetooth che mi dicono: “call ended”.

Test di human-vision, pennarello nero su foto di campagna di moda, 2019
Test di human-vision, pennarello nero su foto di campagna di moda, 2019
Leggere, scrivere, riflettere, altro…

Semplicemente prima non facevo altro che assolvere ad una serie di tasks© in linea l’una con l’altra. Esisteva quindi il tempo libero.

La parte di tempo (della giornata lavorativa, delle festività o del ”fine settimana”, il cosiddetto weekend) durante il quale l’individuo è libero da impegni di lavoro. Nella nozione di t.l. così come è andata definendosi nelle società industriali, specie a partire dal secondo dopoguerra, è quindi implicito sia il concetto di tempo ”libero dal lavoro” sia quello, complementare, di tempo ”totalmente disponibile” e ”liberamente fruibile”: fruibile per attività alternative alle obbligazioni sociali del lavoro, come per esempio le attività di svago e/o d’interesse personale (i cosiddetti hobbies) o, comunque, di godimento privato (donde l’identificazione del free time con leisure in inglese, o con loisir in francese). 

I concetti limite che simbolizzano la massima divergenza tra questi due tipi di tempo sono lavoro gioco. (LAMITICATRECCANI)

Ora, libero di fruire, credo sia sempre weekend, gioco, godo privatamente, mi occupo dei miei hobbies.

Prima cosa che farai quando finisce la quarantena?

La sensazione personale è che, per vari motivi, la quarantena sia finita il primo giorno che è cominciata.

The Gallery revolve, videogame still, 2020
The Gallery revolve, videogame still, 2020
1624, Costellazione 4C, 2018
1624, Costellazione 4C, 2018
Ritratto in volo nei cieli di Farm. Photo by Ilaria Tariello”
Ritratto in volo nei cieli di Farm. Photo by Ilaria Tariello

Com’è cambiata la vita degli artisti durante la quarantena? Come sono mutate le loro abitudini, il loro sentire, il loro lavoro?

L’aria sospesa, gli spazi dilatati, i silenzi, il fluire sordo del tempo. L’attesa pervasa di un chiarore surreale e indefinito che scandisce le vite della quarantena. Abbiamo chiesto a una serie di artisti di raccontarci lo scorrere del tempo dalle proprie case, trasformate in temporanei atelier. La vita di un artista ai tempi della pandemia.

I tempi di Alessandro Sambini

Come passi la giornata, dove e come dipingi ora?

Passo la giornata tra casa e studio, l’una 30 metri dall’altro. Distinguerei tra il “lavoro” di auto-tutela spirituale e quello concreto, che ha un precipitato più tangibile. Quest’ultimo dipende dalle stesse tempistiche pre-Covid, che, seppur più rarefatte e meno formali, rimangono invariate. Per quanto riguarda il primo “lavoro” invece non dipende da niente e nessuno se non (in sequenza lineare) dall’istinto di preservazione, dalla necessità insorta di riconsiderazione del sé (ovvero la ridefinizione del mio contorno) e infine dal vizio dell’auto-proiezione nel tempo.

Tempo, Spazio, Suono. Concetti ricalibrati, relativi, riformulati…

Ho scoperto che esiste il tempo, prima non lo consideravo. Lo spazio mentale sovrasta, annienta o domina quello fisico. Il suono è quello del violino, di Call Of Duty Mobile e delle cuffie Bluetooth che mi dicono: “call ended”.

Test di human-vision, pennarello nero su foto di campagna di moda, 2019
Test di human-vision, pennarello nero su foto di campagna di moda, 2019
Leggere, scrivere, riflettere, altro…

Semplicemente prima non facevo altro che assolvere ad una serie di tasks© in linea l’una con l’altra. Esisteva quindi il tempo libero.

La parte di tempo (della giornata lavorativa, delle festività o del ”fine settimana”, il cosiddetto weekend) durante il quale l’individuo è libero da impegni di lavoro. Nella nozione di t.l. così come è andata definendosi nelle società industriali, specie a partire dal secondo dopoguerra, è quindi implicito sia il concetto di tempo ”libero dal lavoro” sia quello, complementare, di tempo ”totalmente disponibile” e ”liberamente fruibile”: fruibile per attività alternative alle obbligazioni sociali del lavoro, come per esempio le attività di svago e/o d’interesse personale (i cosiddetti hobbies) o, comunque, di godimento privato (donde l’identificazione del free time con leisure in inglese, o con loisir in francese). 

I concetti limite che simbolizzano la massima divergenza tra questi due tipi di tempo sono lavoro gioco. (LAMITICATRECCANI)

Ora, libero di fruire, credo sia sempre weekend, gioco, godo privatamente, mi occupo dei miei hobbies.

Prima cosa che farai quando finisce la quarantena?

La sensazione personale è che, per vari motivi, la quarantena sia finita il primo giorno che è cominciata.

The Gallery revolve, videogame still, 2020
The Gallery revolve, videogame still, 2020
1624, Costellazione 4C, 2018
1624, Costellazione 4C, 2018
Ritratto in volo nei cieli di Farm. Photo by Ilaria Tariello”
Ritratto in volo nei cieli di Farm. Photo by Ilaria Tariello

Com’è cambiata la vita degli artisti durante la quarantena? Come sono mutate le loro abitudini, il loro sentire, il loro lavoro?

L’aria sospesa, gli spazi dilatati, i silenzi, il fluire sordo del tempo. L’attesa pervasa di un chiarore surreale e indefinito che scandisce le vite della quarantena. Abbiamo chiesto a una serie di artisti di raccontarci lo scorrere del tempo dalle proprie case, trasformate in temporanei atelier. La vita di un artista ai tempi della pandemia.

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Come passi la giornata, dove e come dipingi ora?

Passo la giornata tra casa e studio, l’una 30 metri dall’altro. Distinguerei tra il “lavoro” di auto-tutela spirituale e quello concreto, che ha un precipitato più tangibile. Quest’ultimo dipende dalle stesse tempistiche pre-Covid, che, seppur più rarefatte e meno formali, rimangono invariate. Per quanto riguarda il primo “lavoro” invece non dipende da niente e nessuno se non (in sequenza lineare) dall’istinto di preservazione, dalla necessità insorta di riconsiderazione del sé (ovvero la ridefinizione del mio contorno) e infine dal vizio dell’auto-proiezione nel tempo.

Tempo, Spazio, Suono. Concetti ricalibrati, relativi, riformulati…

Ho scoperto che esiste il tempo, prima non lo consideravo. Lo spazio mentale sovrasta, annienta o domina quello fisico. Il suono è quello del violino, di Call Of Duty Mobile e delle cuffie Bluetooth che mi dicono: “call ended”.

Test di human-vision, pennarello nero su foto di campagna di moda, 2019
Test di human-vision, pennarello nero su foto di campagna di moda, 2019
Leggere, scrivere, riflettere, altro…

Semplicemente prima non facevo altro che assolvere ad una serie di tasks© in linea l’una con l’altra. Esisteva quindi il tempo libero.

La parte di tempo (della giornata lavorativa, delle festività o del ”fine settimana”, il cosiddetto weekend) durante il quale l’individuo è libero da impegni di lavoro. Nella nozione di t.l. così come è andata definendosi nelle società industriali, specie a partire dal secondo dopoguerra, è quindi implicito sia il concetto di tempo ”libero dal lavoro” sia quello, complementare, di tempo ”totalmente disponibile” e ”liberamente fruibile”: fruibile per attività alternative alle obbligazioni sociali del lavoro, come per esempio le attività di svago e/o d’interesse personale (i cosiddetti hobbies) o, comunque, di godimento privato (donde l’identificazione del free time con leisure in inglese, o con loisir in francese). 

I concetti limite che simbolizzano la massima divergenza tra questi due tipi di tempo sono lavoro gioco. (LAMITICATRECCANI)

Ora, libero di fruire, credo sia sempre weekend, gioco, godo privatamente, mi occupo dei miei hobbies.

Prima cosa che farai quando finisce la quarantena?

La sensazione personale è che, per vari motivi, la quarantena sia finita il primo giorno che è cominciata.

The Gallery revolve, videogame still, 2020
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1624, Costellazione 4C, 2018
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